La guardo negli occhi, profondi, lontani, il colore nascosto dalle lacrime appena trattenute. Lei mi racconta di un ritorno, ci conosciamo poco, eppure sono parte della sua vita, un po’, un po’ tanto per i figli suoi, per un cammino fatto insieme per farli crescere e che ora affonda, affonda come i suoi sogni.
Storie di immigrati, storie di donne, uomini, bambini, che valicano mari e cieli cercando un paese che esiste solo in film come “Miracolo a Milano”, un paese dove “buongiorno sia veramente un buongiorno”. Ma può esistere ancora un simile paese, dove la menzogna non sappia macchiare almeno i bambini?
Lei guarda i suoi figli, e trattiene ancora il pianto, dicendo dei sogni e delle illusioni e l’unica certezza e di essere vissuta “Sono arrivata qui che avevo diciannove anni, ritorno che ne ho trenta”. Dopo aver imparato una lingua nuova, dopo aver messo al mondo tre figli, dopo averne accompagnati a scuola due, dopo essersi impegnata perché non si sentissero diversi. “Sarà il nostro ultimo Natale, partiremo il 28”.
Il 28 dicembre, è dal 1985 che in questa data celebro il compleanno del cinema, un esercizio di memoria, anche lei si sforza di mantenere una memoria e trema per paura di perderla in un ritorno che non lascia spazio ai sogni. Da qualche altra parte di questa provincia incapace di essere comunità, un bambino di sette anni ha appena scoperto che non vedrà più i suoi genitori, quelli veri, quelli incapaci di dargli un calore necessario per legge. Ha appena scoperto che avrà una nuova famiglia con cui passare il Natale. Ora sta sbattendo la testa contro il muro piangendo. Davanti a me sua sorella sorride, hanno la stessa età, oggi lo vedrà per l’ultima volta, ma lei sorride perché sa di incontrarlo. Ai bambini è negata l’esperienza del domani, li si illude e tradisce facilmente. Come gli immigrati che corrono verso un paese che sembra quello dei balocchi e come pinocchi, incapaci di capire, vengono ributtati a mare.
Adino non parla, non aspetta il Natale, non si può aspettare Natale quando è morto tuo figlio da pochi giorni, e Adino ha passato gli ottant’anni e se anche le lacrime si son fatte secche prova ancora a piangere e l’umidità delle lacrime che non scendono dipinge mille luci nei suoi occhi, come quelle di Natale, come quelle che il cuore non vuol vedere e la mente gli offre impudica. Al telefono risponde che tutto va bene e che si ricorda di tanti natali passati insieme all’aperitivo davanti a una bottiglia di champagne e ancora non conoscevamo il Jacques Sellosse, e non pensavamo che l’eternità ci era negata. Oh Adino, che pena e che fatica antica è essere uomini e come farai a guardare la moglie di tuo figlio e i tuoi nipoti e non dire che è impossibile e crudele per un padre non morire prima dei figli.
Da qualche parete dalle parti di Gerusalemme Gilli chiude la sua storia alla Cineteca, in un’e-mail mi raccontava della neve, e che le era venuta voglia di cantare una canzone natalizia, di quelle che dicono della neve e delle luci e dei focolari accesi e delle poesie dei bambini e delle campane che suonano e dei pacchi regali da scartare per essere sorpresi di fronte al regalo atteso. Ma basta la neve su Gerusalemme a dimenticare la realtà di ogni giorno? Basta l’illusione di stare davanti a un film e viverne le emozioni, per dimenticare il mondo intorno? Serve a questo, il Natale, serve ad assopirsi di fronte all’umanità in cammino? E non era forse in cammino quell’umanità che, seguendo una stella cometa che non si era sciolta passando vicino al sole, trovava in un una capanna l’erede di tante dei solari, cantati da poeti e pregati da popoli dalla notte dei tempi?
Com’è bella questa immagine dei magi e dei pastori e delle donne e dei bambini in marcia verso una povera capanna, che forse era una grotta, o forse era solo un sogno e non c’era la stella cometa e… E in quella notte i bambini erano tutti felici, nelle loro case, con le loro mamme che non dovevano fare i bagagli e andarsene via, e che accarezzavano i loro figli e che mai li avrebbero lasciati da soli, in una notte anche se c’erano le stelle, e loro papà erano li ad aspettare di raccontare una storia, una storia come tutte le sere per i loro bambini. Una storia che i nonni raccontavano e che nonne imparavano a ripetere e che le maestre leggevano sui libri. Una storia che diceva di una notte, di una notte strana in cui bambino nasceva senza casa e i suoi genitori erano tristi perché avrebbero voluto un posto migliore per farlo nascere. Una storia che dice di milioni di bambini, che cercano la felicità di una famiglia, di miliardi di uomini che provano a non soffrire. Una storia antica come il mondo e che ogni giorno e ogni notte si rinnova, là dove nasce un bambino, là dove si celebra un Natale.
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Ugo Brusaporco
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